Και μάλλον Έλληνες καλείσθαι...

"Και μάλλον Έλληνες καλείσθαι τους της παιδεύσεως της ημετέρας ή τους της κοινής φύσεως μετέχοντας" ΙΣΟΚΡΑΤΗΣ

(“Siano chiamati Elleni gli uomini che partecipano della nostra tradizione culturale più di quelli che condividono l'origine comune” ISOCRATE)

UNA NASCITA

di Diego Zandel


Quando a zia Androula cominciarono le doglie, di uomini in casa c’ero soltanto io. Zio Giorgio, suo marito, si trovava a Trapezona, una località a valle di Asfendiou: ci teneva i buoi ed era andato ad accudirli. Zio Kosta, cognato di zio Giorgio per averne sposato la sorella Stavrulla, se n’era andato con la sua motocicletta, come tutte le mattine, a Kos città, dove aveva gli amici e passava le ore con loro a chiacchierare seduto al kafeneon. Così furono le donne ad avvertirmi. Dalla casa di zia Androula uscirono zia Stavrulla, sua sorella Dèspina, che poi sarebbe mia suocera e vive con noi a Roma, mia moglie Anna e le nostre due bambine, Irene ed Elena. Quest’ultime erano particolarmente chiassose, galvanizzate dall’evento.
“Papà, papà, zia Androula ha le doglie” si affrettarono a gridarmi con allegra innocenza, ripetendo ciò che avevano udito dalle donne “Adesso nasce il bambino”.
Fino a quel momento era stato tranquillamente seduto a leggere un libro sotto l’ombra preziosa di un gelso, nel vicino cortile della casa di zio Kosta Ogni tanto distoglievo gli occhi dalla pagina per rivolgerli, languidi e pensosi, allo spettacolo delle isole di Kalimnos e Pserimos e delle coste dell’Anatolia, sospese nell’azzurro del cielo e dell’Egeo, là oltre la piana degli ulivi e la bianca spiaggia di Tigaki. Voleva essere il programma della mia giornata quello. Invece quel corteo muliebre arrivava con altri compiti per me.
“Bisogna andare a chiamare un taxi” gridò mia moglie.
“Bisogna portare Androula all’ospedale” spiegò zia Stavrulla.
“Bisogna far presto” incalzò mia suocera.
“Ho capito” dissi prima che riprendessero il coro, “Sarà tutto fatto”.
Posai il libro e mi alzai dalla sedia. Dovevo scendere in piazza, al magazzino di Mixali, dove si trovava l’unico telefono del villaggio. Mi mossi immediatamente. Ma non potevo passarla così liscia. Le mie figlie approfittarono subito di quella mia improvvisa spedizione al magazzino, unico punto di rifornimento del luogo, per chiedermi di comprar loro qualcosa.
“Il gelato, papà, compraci il gelato” presero a gridarmi mentre prendevo la ripida scorciatoia che porta alla piazza, una sorta di mulattiera che permette di evitare il giro più tortuoso della strada principale, lungo la quale sono disseminate le case, piccole e calcinate, di Asfendiou. Noi ci trovavamo sulla parte più alta del villaggio, quasi un borgo a sé, chiamata Asomatos: qui c’è la vecchia casa, arredata in stile turco, tipico delle isole del Dodecanneso, del padre di mia suocera, nostra dimora nel periodo delle vacanze estive.
Per la corsa e per il caldo, arrivai trafelato in piazza. Entrai nel buio e fresco magazzino di Mixali. Il bottegaio stava placidamente seduto a chiacchierare, tra tazzine di caffè e fumo di sigarette, con papas Gavrili, il pope del villaggio, che sgranava distrattamente il kumboloi, una specie di rosario a grani grossi, e il barbiere Vassili, che apriva il suo negozio solo a richiesta. Salutai, quindi dissi d’un fiato: “Mixali, chiama un taxi, zia Androula ha le doglie”.
I tre uomini mostrarono compiacimento, con sorrisi e tradizionali espressioni di augurio.
“Allora ci siamo” commentò poi allegramente papas Gavrili, prevedendo il battesimo e i proventi che esso portava: “extra” sempre più radi in un villaggio come quello che vedeva via via diminuire la sua popolazione.
Mixali composto il numero della stazione dei taxi di Kos, strillò nella cornetta del telefono i motivi d’urgenza di una macchina. Doveva essere una Kosa breve, invece lo scambio di battute continuò: il solito gusto dei greci per la conversazione. Io fremevo, osservato, per questo motivo, con stupita curiosità da papas Gavrili e da Vassili. Ma che fretta avevo? Quando Mixali abbassò il telefono mi disse: “Adesso parte il taxi. Gli ho detto di venire qui al magazzino, perché non sa a quale casa deve andare. Ti conviene aspettare, così sali con lui”.
Da Kos il taxi ci avrebbe messo più di mezz’ora ad arrivare. Pensai poi all’altra mezz’ora e passa per ritornare a Kos. Zia Androula avrebbe retto fino allora?
Gli altri uomini non sembravano toccati da questa preoccupazione. Papas Gavrili mi indicò una cassetta d’agrumi vuota, che aveva accanto a sé.
“Sedetevi qui” m’invitò in italiano, che non aveva dimenticato dal tempo in cui, tra le due guerre, l’isola si trovava sotto amministrazione italiana.

Mi mostrai per un attimo indeciso. Ma poi pensai che non avrei affrettato l’arrivo del taxi continuando a restare in ansia. Andai perciò a sedermi accanto a papas Gavrili. Oltre la porta del magazzino, là fuori, la piazza polverosa e battuta dal sole, rimandava un biancore abbacinante. Fu sufficiente a farmi riflettere sul perché di certi ritmi in quel mondo.
Mixali, senza che avessi chiesto nulla, mi porse un vassoio con una tazzina di caffè e un bicchier d’acqua. “Te lo offre Vassili” disse.
Guardai il barbiere, piccolo e magro, se ne stava perduto nel suo mondo di fumo, accartocciato su se stesso: le gambe accavallate, i gomiti poggiati sulle ginocchia, la sigaretta tra le dita posta davanti alle labbra, alle quali la portava con gesto quasi impercettibile. Aveva un ramoscello di basilico sull’orecchio.
Efcharistò” lo ringraziai.
“Tipota”, niente, rispose.
Sollevai la tazza e augurai: “Stin ighià sas”, salute a tutti. Sorseggiai. Papas Gavrili mi chiese: “Venite anche voi a Zià oggi pomeriggio? C’è la benedizione dell’acqua. Potrete portarne una bottiglia in Italia”.
Buona idea, pensai. L’acqua benedetta di Zià – un villaggio vicino, frazione di Asfendiou, ricco di sorgenti – mi aveva sempre portato fortuna: bastava chiedere a papas Gavrili la benedizione più varis, più pesante (ce n’erano di vari tipi). Di quell’acqua sarebbe bastato prendere un cucchiaino a settimana, il mattino a digiuno, per tener lontano il malocchio: un piccolo rito che veniva seguito dall’intera famiglia. Immagino le burle dei miei amici, che mi sanno orgoglioso miscredente, se venissero a sapere della cosa. Risparmio di raccontare la scena della benedizione in chiesa: io con mia moglie, mia suocera e le bambine – che si divertono un mondo – tutti inginocchiati sotto la stola rosso dorata del pope, che intona la formula liturgica come se fossero parole magiche.
“Verrò” promisi a papas Gavrili, con il quale subito dopo presi a parlare di politica, argomento per il quale aveva una dialettica tutta bizantina.
Il tempo, in questo modo, volò e arrivò il taxi, uno di quei grossi bidoni americani o giapponesi, come si usano da quelle parti, personalizzati con tanti gingilli, foto e festoni colorati di sapore arabo ai bordi del parabrezza e l’autoradio accesa a tutto volume che trasmetteva tipiche melodie greche. L’autista, alto e pelato, con due baffoni neri, scese dalla macchina, mentre tutti noi, Mixali, papas Gavrili, Vassili ed io, gli andammo incontro.
Si cominciò subito a dialogare animatamente, come se si litigasse, alla maniera greca, ma gli argomenti erano: qual era la casa dove il taxista doveva andare; l’avviso che lo avrei accompagnato io; il fatto che si vedeva che non ero del posto: la curiosità di sapere da quale paese venivo (poi, la solita frase: “italiano greco, una fazza, una razza”, dove fazza sta per faccia); quindi ancora l’interesse di sapere perché mi trovavo ad Asfendiou e la relativa spiegazione data in maniera complicata: ero il marito della figlia di una del paese, che era la sorella del marito della donna che stava per partorire; commento generale: certo, povera donna, era dura partorire con questo caldo! A lui, il taxista, per il caldo, era venuta sete, avrebbe bevuto una birra; Mixali rientrò per andare a prenderne nel frigo un barattolo: il taxista lo stappò e prese a bere… Nel frattempo il taxi aveva suscitato la curiosità dei bambini del villaggio, che avevano ormai circondato la macchina.
“Sarà meglio che andiamo” proposi io timidamente.
Il taxista annuì. “Finisco soltanto di bere la birra” rispose. Mi ricordai dei due gelati per Irene ed Elena. Lo dissi a Mixali e gli pagai, oltre ai gelati, la telefonata e la birra del taxista. Ma ora mi sentivo di nuovo in ansia per zia Androula. Entrai nell’automobile, sedetti al posto accanto a quello dell’autista. Mi venne in soccorso papas Gavrili che disse al taxista: “Adesso andate, altrimenti i gelati per le bambine si squagliano”.
Finalmente ci muovemmo, con uno scatto addirittura, sollevando un gran polverone. A ogni curva il taxista, senza diminuire la velocità, suonava il clacson. Generosamente avvertiva civili e animali che stavamo per passare noi e che, quindi, corressero ai ripari. Ma ad Asfendiou anche le galline che passeggiavano in mezzo alla via avevano un loro placido modo per schivare, all’ultimo momento, le ruote dell’automobile. Il frastuono aveva avvertito i miei dell’arrivo. Vidi Irene ed Elena che ci aspettavano davanti al cancello del cortile della casa di zio Kosta.
Avvertii il taxista che eravamo arrivati. Frenò bruscamente, all’ultimo momento: le mie figlie scomparvero in una nube di polvere, per riemergere quasi subito con le manine protese a reclamare il loro gelato. Aspettavano solo quello e mi chiesi cosa sarebbe successo se me ne fossi dimenticato. Mi strapparono letteralmente le confezioni dalle mani, e corsero a godersi il gelato sotto l’ombra del gelso.
Poco dopo vidi arrivare zia Stavrulla con una enorme valigia di cartone, come quelle che si usavano una volta, con la chiusura magari resa più sicura da uno o due giri di spago. Mi precipitai ad aiutarla mentre il taxista apriva il portabagagli A zia Stavrulla seguirono zia Androula, mia suocera e mia moglie. I dolori, fui informato, erano ora un po’ più frequenti. Sistemammo zia Androula sul sedile accanto a quello dell’autista, quindi di dietro salimmo mia suocera, zia Stavrulla e io. Partimmo salutati da Anna e le bambine.
La strada del villaggio non è asfaltata. E’ bianca, polverosa e piena di sassi e buche. Se prima non ci facevo caso, adesso a ogni pietra o buca che prendevamo era come se la vita di zia Androula e quella che portava in grembo venissero messe a repentaglio. Mi confortava solo il fatto che la vedevo tranquilla e serena. Ripassammo davanti al magazzino e attraversammo la piazza salutando tutti – papas Gavrilli, Mixali, Vassili, i bambini – festosamente con il clacson. Quindi cominciò la discesa. Asfendiou si trova a seicento metri d’altezza, adagiato sul costone del monte Dikeo. Per scendere a valle, la strada, stretta e a dorso d’asino, compie quattro chilometri di curve sulle quali il taxista, forse intimamente sollecitato a portar presto zia Androula all’ospedale e, nello stesso tempo, confidando nella sua abilità nella guida, si gettò a capofitto. Pensai che sarebbe stato un miracolo se zia Androula non avesse partorito in macchina. Mentre lo scenario luminoso della piana di Kos, del mare delle isole e delle coste turche, via via che scendevamo si andava restringendo, tutti noi in macchina ci chiudemmo saggiamente in un religioso silenzio. Lo rompeva soltanto lo strimpellare di bouzouki e il suono dei tamburelli che senza tregua continuavano a uscire dagli altoparlanti dell’autoradio. Riuscimmo a schivare un capretto che dal pascolo s’era spinto in mezzo alla strada; spaventammo una coppia di turisti che aveva avuto la sventurata idea di salire in bicicletta ad Asfendiou; sfiorammo infine la tragedia quando, dietro all’ennesima curva, ci trovammo davanti a un motocarrozzino carico di cassette di pomodori: ma lo sorpassammo costringendolo a scostarsi con un veemente e ripetuto suono di clacson. Mi accorsi che, dopo, avevamo tutti, compreso il taxista, un sorriso ebete di paura sulle labbra. Non potei fare a meno di allungare una mano sulla spalla di zia Androula e chiedere: “Ollo kalà?”, tutto bene?.
Ollo kalà” rispose con un filo di voce ed un sorriso.
Mia suocera chiese stizzosamente al taxista di andare più lentamente. Cosa che l’uomo, dopo una risata nervosa e parole sdrammatizzanti, fece. Io proposi: “Per questi giorni che zia sta in ospedale ci conviene prendere una macchina a noleggio”.
Mia suocera esultò a questa idea, la commentò subito con la sorella e la cognata, che si affrettarono a complimentarsi con me che l’avevo avuta.
Ormai filavamo lungo la strada costiera. Poco dopo eravamo alle porte di Kos, infilavamo uno dei suoi viali alberati. E’ tutta una zona, quella, ricostruita dagli italiani dopo il terremoto che aveva sconvolto l’isola nel 1933. I platani, così i pini mediterranei, erano stati piantati allora. E anche le case conservano l’italico stile coloniale dell’epoca fascista.
Arrivammo infine davanti all’ospedale; pagai il taxista, presi la valigiona e accompagnai le donne fino al reparto maternità, dove l’infermiera di turno si mostrò molto sbrigativa. Zia Androula fu invitata a spogliarsi e scomparve dietro una tenda. A quel punto ritenni la mia presenza inopportuna e me ne andai avvertendo che sarei tornato dopo aver preso la macchina a noleggio. Uscii dall’ospedale e mi avviai verso l’agorà. Come al solito, le strade erano molto animate, con frotte di turisti seminudi che assediavano taverne e negozi di souvernirs e kafeneon. Passai per quello dov’era solito fermarsi zio Kosta, ma mi dissero che se n’era già andato. E, in effetti, guardando l’orologio m’accorsi che eravamo ormai prossimi all’ora del pranzo. La segnalavano anche gli odori e i fumi che uscivano dalle taverne. E se anch’io ne approfittassi per buttar giù un boccone? Pensai. Attraversai l’agorà e andai alla taverna di Turkomanoli. Mi affacciai sulla porta. Turkomanoli se ne stava col suo baschetto di traverso sulla testa e l’unto grembiulone, davanti al piccolo e rotondo barbecue sul quale da trent’anni cucinava, in maniera prelibata, il suo pesce.
“Toh, chi si vede!” mi fece.
Gli raccontai di zia Androula e lui, per un momento, mi prestò attenzione. Subito la moglie, che se ne stava dietro il bancone a preparare le insalate, lo redarguì strillando nella sua solita maniera pittoresca. Era una brontolona, una sorta di Santippe, e coglieva ogni occasione per rimproverare il marito di qualcosa che non andava, che ci metteva tanto a cucinare il pesce o che era lento a servire i clienti. Turkomanoli, unico esempio per me di uomo greco sottomesso alla moglie, si limitava ad alzare gli occhi al cielo con rassegnazione. Un gesto che lo faceva apparire molto simpatico. Da qualche tempo era nata una sorta di complicità tra noi: i dollari che mi portavo dietro, invece della banca me li cambiava lui, di nascosto dalla moglie (che altrimenti glieli avrebbe requisiti), in vista di un viaggio in America, che aveva in animo di fare per andare a trovare una figlia che era lì emigrata. Anche per questo motivo, sedutomi a un tavolo, fui servito prima di altri avventori. Avevo lasciato che facesse tutto lui: mi portò una porzione di triglie. Erano tenere e calde, si squagliavano sotto il palato. Un giorno che avevo chiesto a Turkomanoli qual era il segreto della sua cucina mi aveva risposto che esso stava nel condimento. Mi aveva mostrato la boccetta che teneva a portata di mano: dentro c’erano ben mescolati olio d’oliva, succo di limone e sale. Li spargeva sul pesce appena tolto dalla graticola.
Con le triglie Turkomanoli mi portò un bicchiere del vino che faceva lui: lo teneva nelle botti che occupavano la parete dietro il bancone. Appena poté venne a sincerarsi della bontà del piatto.
“Ottimo, Turkomanoli, come sempre” lo rassicurai.
Prima che la moglie lo richiamasse feci in tempo a chiedergli da chi potevo prendere una macchina a noleggio. Mi diede un nome, Mavros, e l’indirizzo, nei pressi del porto.
“Fa buoni prezzi, lui” aggiunse Turkomanoli, “digli che ti mando io”.
Ma quando fui da Mavros, un tipo sui cinquanta, vestito sportivamente e dal piglio affaristico di chi era abituato a trattare con i turisti, sorse un problema. A quell’ora aveva ormai dato via tutte le macchine; se volevo, era rimasta una jeep. Me la indicò posteggiata davanti al negozio. Si trattava di una grande Toyota, scoperta, con la sua ruotona di scorta e la pala e il piccone di serie appesi sul posteriore. L’idea di mettermi alla guida di una jeep mi solleticava, con la fantasia mi vedevo come un uomo proiettato verso l’avventura, di cui, come tutti i sognatori subivo il fascino e il mito di tanta letteratura. Ma, nello stesso tempo, ero colto dalle mie ansie di pavido piccolo borghese. Temevo soprattutto pericoli per le mie figlie: sempre nella immaginazione, vedevo Irene ed Elena cadere dal veicolo, così scoperto e con quei sedili spartani, sulle serpentine che scendevano da Asfendiou; o che l’aria e il vento diretti le raffreddassero. E poi, quando avrei dovuto riportare zia Androula a casa, ci sarebbe stato anche il neonato… Espressi i miei timori a Mavros, ma lui pur di fare quell’ultimo affare, minimizzò ogni cosa convincendomi a prendere la Jeep.
Quando salii a bordo e mi sedetti al volante, confesso di aver provato una certa emozione. Ormai novello Indiana Jones girai la chiave del motore, diedi gas e avanzai lungo le strade di Kos come se fossero del Cairo o di Gibuti.
Ritornai all’ospedale, dove parcheggiai la jeep quasi davanti all’entrata. Saltai giù con intatto spirito di avventuriero e infilai prima il vialetto esterno, poi il corridoio dell’ospedale. In fondo a questo vidi zio Giorgio. Qualcuno era andato ad avvertirlo e lui aveva lasciato i buoi per raggiungere la moglie. Appena mi vide, dal fondo del corridoio: “Ine mia korulla”, è una bambina e quasi voleva piangere, perché si aspettava un maschio. L’abbracciai, felice che tutto era andato bene.
“Andiamo a vederla” mi disse.
Io m’aspettavo di vedere la bambina come avevo visto le mie quando erano nate, in un ambiente asettico e attraverso un vetro che, in quelle prime ore, le proteggesse da eventuali contagi e infezioni esterne. Invece zio Giorgio mi trascinò nella stanza dove erano riunite tutte le puerpere, ciascuna con il proprio figlio accanto, assistite dalle proprie madri-nonne. Salutai, imbarazzato per quella che mi sembrava l’intrusione in un gineceo. Alcune puerpere stavano mangiando. Si sentivano gli odori dei piatti: pomodori ripieni, dolmades, cioè foglie di vite ripiene di riso, keftedes, ovvero polpettine, abbondanti porzioni di pasticcio, formaggi. Evidentemente vige l’idea che le puerpere devono mettersi in forze. Le donne risposero al mio saluto con naturalezza. Tra esse c’era una fervida conversazione, un cicaleccio di comari.
Intorno a zia Androula c’erano mia suocera, che in quel momento stava raccontando la sua vita alla vicina di letto, zia Stavrulla e la madre di zia Androula, che abitava a Pilì, un paese vicino ad Asfendiou, e che salutai con un abbraccio. Baciai anche zia Androula. Era ancora scarmigliata e confusa. Poi guardai la bambina, il solito mostriciattolo delle prime ore. “Orea, orea”; bella, bella, esclamai. Dormiva pacifica, incurante di quella confusione intorno a lei.
Le altre puerpere mi invitarono a vedere anche i loro bambini. Guardai in tutte le culle scambiando sorrisi con le mamme e le nonne. Ogni bambino aveva appuntata una spilla con “l’occhio del Visir” contro il malocchio.
Nel frattempo, anche zia Androula cominciò a mangiare. La madre aveva portato una pentola di dolmades e una ricottina fresca fresca delle loro capre. Qualche neonato frignava. Aveva fame anche lui.
“Meglio che togliamo il disturbo”, dissi a mia suocera “ho la macchina qui fuori”.
Mia suocera annuì e chiamò sua sorella Stavrulla. Chiedemmo a zio Giorgio se voleva tornare ad Asfendiou con noi, ma rispose che preferiva restare, approfittava per fare degli acquisti a Kos.
“Ci vediamo questa sera e facciamo festa” mi disse.
Gli diedi una pacca sulle spalle e salutai tutte le puerpere con un augurio generale. Mi rispose un coro di efcharistò. La scena si ripeté con i saluti e gli auguri a tutte da parte di mia suocera e zia Stavrulla. Uscimmo dalla stanza come da una festa. Fuori dell’ospedale l’aria era calda, appena mossa da una brezza che arrivava dal mare.
“Dov’è la macchina?” mi chiese mia suocera, alleggerita al pensiero della comodità che l’aspettava.
“E’ quella” dissi indicando la jeep.
Mia suocera cambiò espressione. “Quella!?” esclamò tra incredula e stizzita.
“Non ce n’erano altre” mi affrettai a giustificarmi “era tardi ormai. Bisogna andare la mattina presto a prenderle”.
Zia Stavrulla, col suo sorriso bonario e sempre piena di premure per me, intervenne in mio aiuto.
“Che cosa c’è che non va in quella macchina?” finse di non capire.
E per spegnere ogni discussione si mosse verso la jeep con l’intento di salirvi sopra. Ma, sollevato il piede, piccola e grassa com’è, non riusciva neppure a raggiungere il predellino. Ci provò una seconda e una terza volta, prendendo anche lo slancio, ma era troppo alto per lei. Scoppiò a ridere, anche se un po’ imbarazzata.
Déspina, spingimi” disse alla sorella.
Mia suocera cominciò a spingere zia Stavrulla per il sedere. Anche questo tentativo si dimostrò inutile.
“Aspetta che provo io” disse mia suocera, un po’ divertita dalla scena che aveva offerto sua sorella.
Sollevò il piede anche lei, più volte, ma il risultato fu lo stesso di zia Stavrulla.
“Ma che razza di macchina è questa!” ripeteva mia suocera.
A furia di tentativi era riuscita a mettere un piede sul predellino, le mancava il balzo finale. Zia Stavrulla prese a spingere la sorella per il didietro. Oh oh. Invano.
“Ahi, ahi, le mie povere ginocchia!” si lamentò mia suocera. Io non potei più trattenermi dal ridere, contagiando le due donne.
“Non possiamo prendere una macchina del genere” disse mia suocera.
“Bisogna riportarla indietro” dissi come ovvia conclusione “il problema è che ho dato all’agenzia l’anticipo. Non lo restituirà tanto facilmente.”.
“Vengo io a parlare”, disse mia suocera. “Non imbroglierà la gente del posto!”.
Fui d’accordo. E sorrisi. “Mi dovete seguire a piedi, però” dissi.
Mia suocera, che non aveva tenuto conto di quel particolare, allargò le braccia. “Già!” esclamò.
Io salii sulla jeep e misi in moto. Avanzai lentamente. Dietro presero a trotterellarmi, affannate e pazienti, le due donne. Avevo ancora qualche minuto per sognare di essere Indiana Jones. Ma pensai che, forse, anche la semplice vita quotidiana poteva essere varia e divertente.

(Da “Verso Est – racconti di oltre il confine orientale e dell’Egeo”, Campanotto editore, 2006)

Diego Zandel (Fermo, 1948) è uno scrittore italiano di origine fiumana. Nasce nell’ospedale di Fermo, nelle Marche, dal momento che la sua famiglia è ospite nel vicino campo profughi di Servigliano, che raccoglie gli esuli italiani dell’Istria, Fiume e dalmazia in fuga dalla Jugoslavia di Tito. Questa origine avrà poi molta rilevanza nei suoi libri.Tutta la produzione narrativa di Zandel appare, comunque, spesso collegata a esperienze autobiografiche, o a echi e risvolti di tali esperienze, in forma diretta o più lontana. Più in generale, vale per Zandel quanto scritto da Elvio Guagnini, professore emerito di letteratura all'Università di Trieste, in merito al romanzo "L'uomo di Kos": "Zandel sa coniugare gli “slarghi” delle descrizioni e dell’analisi con il ritmo sempre sostenuto di un racconto ricco di momenti di sospensione e di colpi di scena. Usa con intelligenza i trucchi del genere (dei generi) ai quali fa riferimento. Usa con altrettanta intelligenza anche la seduzione del paesaggio e dell’ambiente, per tenere avvinto il lettore.E, accanto a tratti “di consumo” usati con intelligenza (ma sappiamo che non tutta la letteratura detta di consumo è necessariamente “di consumo”), sa intrecciare una storia d’azione a un romanzo di analisi. Non è poco." Un'analisi che vale un po' per tutti i suoi romanzi, in cui il gusto del mistero, della memoria e dell'avventura s'intrecciano incisivamente agli eventi della piccola e della grande storia.
(Fonte Wikipedia)

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