Και μάλλον Έλληνες καλείσθαι...

"Και μάλλον Έλληνες καλείσθαι τους της παιδεύσεως της ημετέρας ή τους της κοινής φύσεως μετέχοντας" ΙΣΟΚΡΑΤΗΣ

(“Siano chiamati Elleni gli uomini che partecipano della nostra tradizione culturale più di quelli che condividono l'origine comune” ISOCRATE)

ODISSEΟ INVECCHIA IN SOLITUDINE

Di Petros Màrkaris - Traduzione di Viviana Sebastio


     Mia madre diceva sempre che il segreto per essere un marito ideale sta nel tenere la propria moglie tutto il giorno "su cuscini di piume". Odisseo teneva i suoi gatti “tutto il giorno su cuscini di piume”, mentre lui si accontentava di starsene seduto su uno sgabello, davanti al suo negozio. Odisseo vendeva cuscini. Lo conobbi grazie a due federe ricamate che, tempo prima, avevo acquistato nella Città, a Istanbul. Di tanto in tanto, mi ricordavo di dover comprare dei cuscini per quelle federe, ma ogni volta accadeva qualcosa che me ne faceva dimenticare.
     Finché un giorno, per puro caso, svoltai su via Imvrou. Era una delle rare volte che vi passavo, infatti, nonostante sia una strada vicina a casa mia, io non la percorro quasi mai, preferisco le altre vie, quelle perpendicolari a via Aghia Zoni. Mi trovai, così, di fronte al negozio di Odisseo. “Ma tu guarda... avevo un materassaio a due passi da casa e non lo sapevo. Questa è la volta buona che compro quei cuscini”, dissi tra me e me.
     Ci tornai subito dopo con le mie federe. Odisseo stava sistemando la sua merce. I suoi tre gatti erano distesi languidi sopra dei cuscini e lo seguivano con quello sguardo indolente da gatti viziati. In un piccolo spazio inutilizzato del negozio, Odisseo aveva ricavato per loro un’area ristoro, con sei ciotole di tre colori diversi: due celesti, due gialle e due rosse.
     «Le rosse sono per il gatto» mi spiegò quando vide che le guardavo, «le celesti e le gialle per le gatte… Sono colori più femminili…».
     Il suo accento marcato e quel suo modo di pronunciare «celeste» mi incuriosirono.
     «Nerelisin?» gli chiesi in turco, che sarebbe: “Di dove sei?”
     «Romeo, un greco di Costantinopoli», mi rispose. «Del quartiere di Psomàtheia», disse scandendo l'ultima parola, come se volesse sottolineare con orgoglio la sua discendenza dalla grande comunità di quel quartiere, che i romei avevano da sempre condiviso con gli armeni.
     «Quando sei arrivato qui?»
     I romei della Città hanno due età. La prima si calcola dalla loro nascita, la seconda dal giorno della loro fuga dalla Città stessa.
     «Nel '65, allora avevo venticinque anni. Io e mia madre non volevamo andar via, ma mio padre era stato preso come da un raptus. “Elià, elià kai Kotso Vasilià!”, gridava, come facevano tanti altri, in favore del re, che allora era ancora quel mammalucco di Costantino. Nella Città io e mio padre rivestivamo i pavimenti col vinile e i muri con la carta da parati. Qui, invece, i pavimenti erano in parquet e le pareti venivano imbiancate, finimmo allora per essere i migranti dei quartieri. Dal Paliò Faliro a Kallithea e da lì a Petralona, a Kipseli, ad Acharnòn e sempre più giù, fino ad arrivare a Liosìon. Mio padre morì dal dolore e dal rimorso. Accanto a un materassaio imparai l’arte di confezionare cuscini e in questo modo ho potuto mantenere mia madre che, purtroppo, è morta due anni fa».
     Mi limitai ad annuire, poiché sapevo che i romei portano con sé la maledizione di ogni minoranza ovvero il non poter essere felici in nessun luogo. Nella Città era per colpa dei turchi, qui dei greci. I turchi avevano un detto, piuttosto veritiero, su quanto il futuro sia avverso: “Ciò che viene, ti fa rimpiangere ciò che è andato”.
     «Ho ancora un sogno nella mia vita» continuò Odisseo, «voglio tornare nella mia città per morire nell'ospizio di Balouklì. Voglio che mi seppelliscano nel luogo dove ho visto i miei primi sogni».
Per la prima volta, avevo davanti a me un romeo che sognava di morire dimenticato a Balouklì, l’ospizio della comunità della Città. «Ho già organizzato tutto», proseguì Odisseo. E per  la prima volta, vedevo un sorriso sul suo volto. «Ho dato via tutti i miei risparmi, affinché mi tengano un posto; per questo ho lasciato il mio appartamento e  ora dormo nel negozio, così i soldi dell’affitto li metto da parte per Balouklì. Ci sarei già andato, se non avessi avuto i gatti. Il mio cuore non ce la fa ad abbandonarli per strada».

     Tornai a casa con i miei due cuscini sotto il braccio e con molti dubbi. Non avevo certo preso sul serio la sua intenzione di voler tornare nella Città per morire a Balouklì e, inoltre, dubitavo che avesse già pagato per avere un posto lì: le persone, spesso, danno per fatto compiuto qualcosa che intendono fare e che poi non faranno mai. In realtà, la convinzione che si trattasse solo di ingenui desideri di un uomo nostalgico, mi faceva vedere Odisseo come uno scapolo bizzarro, con tre gatti e tanti cuscini. Quando passavo dal suo negozio, mi fermavo per dargli il buongiorno o per scambiare due chiacchiere. Se voleva spettegolare alle spalle della sua padrona di casa, Odisseo mi parlava in turco. Nella Città parlava greco, per non essere capito dai turchi e qui, ad Atene, parlava in turco. Sono sicuro che se avessi insistito, avrebbe esclamato anche: “Arrivano i giudei!”, che i romei usavano non contro gli ebrei, con i quali condividevano più o meno lo stesso destino, ma contro i turchi verso i quali non potevano esprimersi liberamente.
     Una mattina di settembre, intorno alle undici, sentii bussare alla mia porta, era Odisseo, con un pacchetto tra le mani. «Son venuto a salutarti», mi disse. «Ritorno in patria».
     Non me lo aspettavo affatto, erano passati circa sei mesi da quando ci eravamo conosciuti e quella nostra conversazione sul suo ritorno in patria, per me, era ormai acqua passata. Non mi sentivo, certo, in colpa per aver dato poca importanza al suo proposito di partire, in quanto era uno di quei propositi che l'emozione ti fa dire con facilità, ma che poi la logica difficilmente ti lascia realizzare. Così, il suo improvviso annuncio della partenza, mi trovò impreparato. Chi lo sa, forse voleva farmi una sorpresa o forse aveva intuito la mia diffidenza e aspettava con pazienza l’ora x.
      «E i gatti?», gli chiesi con un certo imbarazzo.
     «Il più grande ci ha lasciati. Gli altri due, li ho dati alla Protezione Animali. Non è stato facile per me, ma ho capito che  era giusto anche per loro andare in ospizio».
      «E quando parti?»
     «Dopodomani, con la corriera. Arrivammo in Grecia proprio così, con la corriera della Pavsanìa. La maggior parte di noi, allora, andava via proprio con quella. Era la corriera delle lacrime. Per tutto il viaggio vedevi solo occhi gonfi e fazzoletti bagnati. Anche questo era un mio sogno: ripetere quel viaggio in corriera, ma questa volta come viaggio di piacere». Poi mi diede il pacchetto. «Questo è per te».
Era un cuscino, con il ricamo di una barca, come quelle che si regalano a Natale.
     «Lo ricamò mia madre. Le barche di Natale erano l’unica cosa che amava della Grecia». Si voltò e scese le scale di corsa, senza aspettare l’ascensore. Lo ringraziai a voce alta, quando ormai era di spalle.

     Ora torno regolarmente nella Città, a volte per affari e a volte, con questo pretesto, vado a fare una passeggiata tra i miei ricordi. I primi due viaggi dopo il rimpatrio di Odisseo, furono di lavoro e non ebbi il tempo di pensare né a lui, né all'ospizio di Balouklì   e tanto meno ad altri istituti umanitari della comunità greca.
     Il terzo viaggio fu un viaggio pretestuoso. Il lavoro l’avevo sistemato da Atene via e-mail, ebbi così molto tempo per delle passeggiate sul Bosforo, per un giro sul traghetto alle isole dei Principi o per gustare il panorama dal caffè di Pierre Lotì. Mi rilassai a tal punto, che mi tornò in mente Odisseo e un pomeriggio lo andai a trovare.
     «E' un suo parente?», mi domandarono in segreteria.
     «No. Sono un suo amico, di Atene».
     «Speriamo di trovarlo, perché nessuno sa dove vada girando durante il giorno», disse preoccupato il segretario.
    Lo rintracciarono dopo mezz’ora. Odisseo irrequieto entrò nell’ufficio, guardando il segretario di traverso. Costui mi indicò. Odisseo fu sorpreso di vedermi.
     «Hoş geldin!», mi disse in turco. «Benvenuto! Come mai ti sei ricordato di me?»
     «Sono qui per qualche giorno e ho pensato di farti un saluto».
     «Hai fatto bene. Vieni, ti porto in camera mia».
     Appena usciti dall’ufficio, prese il ritmo accelerato di una guida turistica. Prima mi portò nella sua stanza, poi nella sala di ricreazione, di seguito nella mensa, da lì in cucina, poi in lavanderia e appresso in giardino, con soste forzate per presentarmi a tutti gli ospiti dell’ospizio: al cuoco, al responsabile della lavanderia, al giardiniere e così via.   Ogni presentazione era seguita dai suoi commenti sulla mia persona e sulla mia vita. Quando uscii dall'ospizio, ero estenuato quanto può esserlo un maratoneta dopo una corsa di quarantadue chilometri. Della Grecia, di Atene e del nostro quartiere non mi chiese nulla. Come se non avesse mai vissuto da quelle parti e, dunque, come se non fosse mai andato via di qui. Prima che lo lasciassi, mi abbracciò e mi costrinse a promettergli che sarei tornato a trovarlo.

     Non mi affrettai a mantenere quella promessa, ogni volta trovavo una scusa per rimandare la visita. A essere sincero, vedere quella gioia da bambino in un un uomo di settant’anni che da solo viveva  nell’ospizio di Balouklì, mi aveva sorpreso. E, soprattutto, mi aveva irritato quella sua indifferenza verso i luoghi che lo avevano ospitato per ben quarant’anni. Alla fine, dopo un anno, decisi di tornare a trovarlo. Andai di pomeriggio, come la prima volta. Il segretario mi riconobbe e, costernato, scosse la testa.
     «Odisseo è morto», disse. Non so se ciò che provai in quel momento fu dell'affetto per Odisseo o del dolore, per non aver esaudito il suo desiderio, ma un sentimento confluiva nell’altro.
     «Era malato?», chiesi.
    «Al contrario, lui era di ferro. Lo scorso mercoledì, son venuti qui per la prima volta i Lupi Grigi. Di solito, vanno a urlare davanti al Patriarcato. Noi abbiamo chiuso tutte le porte in fretta e furia, abbiamo chiamato gli anziani dal giardino e ci siamo acquattati qui dentro, aspettando l’arrivo della polizia. D’improvviso, Odisseo è sbucato fuori dal nulla. Si è messo a correre verso la porta del giardino, poi ha iniziato a scuoterla e a prendersela con i Lupi Grigi. “Andate via di qua!” gridava e scuoteva il cancello. “Sono arrivati i violenti a cacciare i docili! È dal ‘55, da quei Giorni di Settembre che vi mandano qui, per spaventarci, per rovinarci e per tormentarci. Noi non ce ne andiamo, capito! Questo è il nostro posto, siete voi gli stranieri arrivati dall’Oriente! Ma io di voi non ho paura, sappiatelo! Mi avete cacciato una volta, ma ora sono qui per restare! Non vado da nessuna parte io, mi sentite? Da nessuna parte!”» Il segretario cercò di riprendere fiato.
«Ha gridato per ore e ore, le stesse cose. E più lui gridava e più i Lupi Grigi si accanivano. Io, il direttore e due guardiani abbiamo cercato di farlo rientrare, ma era diventato una belva anche nella forza. Alla fine, lo ha fermato la polizia: “Dede” gli ha detto un poliziotto, “Nonno, vieni dentro, ci pensiamo noi a mandarli via”. All’inizio non voleva cedere. “Non mi fanno paura!”, gridava. “Lo so, tu sei un leone”, gli rispondeva il poliziotto. “Torna dentro, ora ce ne occupiamo noi”. Era molto agitato. La pressione gli era arrivata alle stelle. Il medico gli ha dovuto dare un calmante per farlo dormire. La mattina dopo il dottore era qui alle nove, ma Odisseo non si era fatto ancora vivo. Due suoi amici, preoccupati, sono andati in camera a svegliarlo e lo hanno trovato morto nel suo letto».
     Tacemmo, lui perché aveva detto tutto e io perché non sapevo cosa dire. «Potremmo metterla così» aggiunse dopo un po’ il segretario. «Odisseo voleva cacciare i pretendenti dalla sua casa, ma era molto vecchio e il suo cuore si è fermato. Se lei vuole vedere la sua tomba, la trova qui accanto. Li seppelliamo tutti qui».
     Era una tomba semplice, ben curata, si trovava in mezzo a una fila di altre tombe, una identica all'altra, nell'insieme ricordavano, vagamente, un tranquillo sobborgo londinese, con le sue case tutte uguali. 
Il fioraio vendeva rose, garofani e gardenie. Io comprai dei crisantemi, i romei amano i crisantemi.




Petros Màrkaris
nasce nel 1937 a Costantinopoli (molti greci chiamano così, ancora oggi, l’attuale Istanbul). In Italia è noto per i suoi romanzi polizieschi, che hanno come protagonista l’ateniese commissario Charitos. Markaris però, è anche uno sceneggiatore teatrale  televisivo e cinematografico, ha spesso collaborato con Th. Anghelopoulos.
Prima di diventare scrittore ha lavorato anche come traduttore e si è dedicato alla traduzione in greco dell’imponente opera di Goethe: Faust.

1 commento:

  1. un racconto molto toccante ke ci porta a riflettere sulla bellezza dell'invecchiare con le persone a noi care e ci fa inoltre comprendere la malinconia d centinaia d migliaia d esuli Ellenici nati e vissuti a Costantinopoli (odierna Istanbul) ke hanno subito uno sradicamento da un luogo considerato ancora Patria forse più della terra ke li ha accolti ma non accettati come figli legittimi.

    RispondiElimina