Και μάλλον Έλληνες καλείσθαι...

"Και μάλλον Έλληνες καλείσθαι τους της παιδεύσεως της ημετέρας ή τους της κοινής φύσεως μετέχοντας" ΙΣΟΚΡΑΤΗΣ

(“Siano chiamati Elleni gli uomini che partecipano della nostra tradizione culturale più di quelli che condividono l'origine comune” ISOCRATE)

LA MADRE di Andreas Karkavitsas


La madre

Traduzione di Viviana Sebastio


Quella notte, in quella spaventosa notte di dicembre, andai a dormire in un mulino a vento a Troumpè. Mi distesi, ma non dormii. Fuori il temporale infuriava da un capo all’altro del villaggio e rendeva le strade impraticabili. Migliaia di suoni e innumerevoli rumori si susseguivano rapidi e improvvisi. Gli alberi dimenavano le chiome e appena il tuono si placava, iniziava il gemito del vento e appresso il lamento delle tegole.

All’improvviso, si udì il verso sinistro della civetta che a intervalli, copriva il rintocco della campana. Ma verso l’alba, tutto si calmò e quando mi alzai, vidi, seduto al sole, il mugnaio che accanto alla sua gatta cinerina, stava rattoppando un sacco bucato.
«Nottataccia, eh?» dissi.
«Credi che una madre non farebbe altrettanto se le strappassero via il figlio?», chiese incuriosito.
Lo guardai sorpreso: cosa c’entrava una notte burrascosa con una madre alla quale era stato strappato via il figlio?
Ma Giannakis Xintaràs, il mugnaio, fu pronto a dimostrarmi che c’entrava, eccome! E fu così che mi raccontò questa storia:
«Guarda a destra la rocca di Santameri e guarda anche a manca il castello di Chlimoutsi.


I due castelli appartengono, da molto tempo ormai, a due sorelle, due fate. Ognuna delle quali, però, porta con sé una gioia e un dolore. Colei che ha preso Chlimoutsi è felice perché è bella, ma è triste perché non ha figli. Colei che ha preso Santameri è triste perché è brutta, ma è felice perché ha molti figli e i figli, sai, sono la sola vera gioia di una casa. Quando la madre li osserva – uno che si rotola sul pavimento, l’altro che salta e ride senza motivo, l’altro ancora che con una canna vuole arrivare a Dio –, dimentica ogni cosa, persino la sua bruttezza. E se le capita di guardarsi allo specchio, alla vista del suo volto vizzo e rugoso, indietreggia e tra le risa dice: “Ah, ah! La mia giovinezza l’ho data ai miei figli!”.
E in effetti, ha cinque maschi belli come il sole e una femmina che è l’incarnazione stessa della bellezza!


Ma l’altra fata, la bella, cosa può dire e come può consolarsi? Come, anche se è avvenente e con gli occhi azzurri? Come, anche se con i suoi averi potrebbe andare in sposa al Sultano di Avlakià? Come, anche se i folletti di Lintzi, con nacchere e i tamburelli, scatenano il finimondo nel cantare la sua bellezza? 
E spesso, molto spesso, l’infelice si ritrova a pensare a quanto sia sola, del tutto sola, in quel castello, pensa a quei cortili deserti, alle porte immobili e alle stanze vuote. Allora è colta da un brivido e quasi sviene dal dolore. E poi piange, piange. E ripete: “Perché mai non ho un figlio anche io? Perché Dio mio, dannazione perché! Perché non ho un bimbo, piccolo e paffuto, un bimbo roseo a cui carezzare i riccioluti capelli, un bimbo che mi getti le braccia al collo e che giocherellando con le sue prime parole, mi dica: ‘Mamma, mammina mia dolce!... ’”.
Un giorno, la fata bella andò a far visita alla fata brutta e quando vide la felicità che regnava nella sua casa, per poco non impazzì dal dolore.
“Dimmi, sorella mia, perché non mi dai uno dei tuoi figli?” implorò con le lacrime agli occhi.
“E perché lo vuoi?”
“Per compagnia, vivo così male da sola, mi sto ammalando!”
“Ma va! E ringrazia Dio per averti risparmiato una tale seccatura!” disse fingendo di essere infastidita dai suoi bambini. “E va bene, allora prendi quello che vuoi”, infine le rispose. 



E così fu. Quella sera la fata bella se ne andò, portandosi via anche l’orgoglio di Santameri: la figlia bella della fata brutta.

Passarono i mesi e gli anni, ma la fata brutta non vide più né sua sorella né sua figlia. Un bel giorno, però, persa la pazienza, la fata brutta decise di tornare a Chlimoutsi, ma giunta lì trovò il castello deserto, il portone serrato e gli abbaini coperti dall’erba. Bussò alle porte, picchiò sui muri, pianse, gridò, ma nulla. La fata bella era dentro con la figlia bella, le due giocavano, ridevano e fingevano di non sentire la madre, l’addolorata madre, che fuori si percuoteva e si dimenava per sua figlia, per la carne della sua carne!».
Il vecchio Xintaràs interruppe qui il suo racconto, rattoppò un altro buco del sacco e mi guardò negli occhi. Di certo il mugnaio da qualche parte voleva arrivare, ma aspettava solo che io lo spronassi a parlare. Proprio come i buoi che pur conoscendo la fine della loro strada, di tanto in tanto, si fermano e attendono il pungolo dell’aratore.
«E allora?» chiesi.
«Certo», disse e proseguì: «Da allora, la fata brutta non ha più perso la speranza di riavere sua figlia e ogni tanto, torna al castello. Ma prima di andare indossa le vesti più belle, mette i gioielli più lucenti e porta con sé tutte le sue serve e le sue nutrici con violini e liuti. E al suo passaggio tutto ciò che è animato e inanimato gioisce. Il cielo splende, il mare si acquieta, la vasta pianura fiorisce, un dolce profumo si espande nell'aria, tutte le creature si accoppiano con dolcezza, gli alberi germogliano e nei villaggi trionfa la gioia, sembra Pasqua! E al suo passaggio soffia, da un colle all’altro, un venticello colmo di canti melodiosi.
Ma quando la fata arriva al castello, lo trova ancora serrato e silenzioso, e allora inizia a girare intorno a tutte le torri e a reclamare con voce addolorata e implorante la sua figliola. La reclama promettendo alla sorella, Santameri con i suoi giardini incantati e i palazzi sospesi nell’aria, con le sue fontane di diamanti e le scale ornate di perle, con i suoi cortili dorati, le porte intarsiate e le volte scolpite. E infine, le promette che sarà signora e padrona di tutto, mentre lei diventerà la sua serva per servirla e la sua lavandaia per lavarla; mangerà i suoi avanzi e berrà sciacquatura, purché le restituisca la sua figliola adorata.
Questo e altro le promette. Ma la fata bella finge di non sentire quelle parole. Esasperata, la fata brutta si rivolge con dolcezza a sua figlia, facendole promesse. Le promette in dono il rubino più grande e prezioso, rosso come il sangue incandescente del drago, che lo protegge nelle viscere della terra.
Ma dall’interno non si odono che canzoni, musiche e risa di gioia, che accrescono la rabbia della madre, che inizia a maledire la sorella cagna e sciagurata.
Si calpesta le vesti e i gioielli che indossa, si lacera le guance con le unghie, si strappa i capelli, strilla e urla come una lince. Sbatte col petto contro le pareti, prende a pugni il portone, azzanna coi denti gli angoli dei muri, tira calci al castello inanimato, finché esausta cade a terra, vomitando sangue e bile. Le serve, allora, la sollevano e la riportano a Santameri. Ma lungo il tragitto non è più la madre felice che va a prendere la sua figliola. È una madre infuriata, un temporale armato di acqua, grandine e trombe d’aria. Il mare inizia a sbattere e a gemere, come se provasse quel suo stesso dolore. Il cielo si fa scuro e le acque torbide. Gli alberi sfiancati si abbattono a terra. Le giumente abortiscono e un’aria di sciagura opprime i villaggi. Da un capo all’altro della pianura si scatena la furia del temporale: querce millenarie sradicate, edifici abbattuti, tegole divelte, mattoni e sassi spazzati via e nell’altro mondo si ode il pianto della madre...


Ma che sciocco! Non ho controllato se il temporale ha distrutto anche le pale del mio mulino!».



E Giannakis Xintaràs, il mugnaio, balzò in piedi e corse a vedere che il temporale non avesse distrutto anche le pale del suo mulino.








La madre è  un racconto popolare greco, interpretato e scritto tra il 1885 e il 1897 dallo scrittore Andreas Karkavitsas e pubblicato dalle Ed. Estìa, Atene 1900.

In Italia è stato pubblicato dai Dragomanni in "Uccelli di fango", scaricabile gratuitamente  su STREETLIB STORES.

Uccelli di Fango” è una preziosa antologia di racconti con testi di Andreas Karkavitsas, Endre Ady, Santiago Rusiñol, Raimon Casellas i Dou, Alphonse Allais, Loudi Andreas Karkavitsas, Endre Ady, Santiago Rusiñol, Raimon Casellas i Dou, Alphonse Allais, Louis Hémon, Léon Hennique, Joris-Karl Huysmans, Netta Syrett, Kate Chopin, nelle traduzioni di Viviana Sebastio, Andrea Rényi, Tiziana Camerani, Ilaria Piperno, Paola De Vergori, Valentina Rapetti, Laura Franco. Dragomanni, 2012.

Aspetto di sapere cosa ne pensate!



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